L'abolizione della tratta degli schiavi si riferisce all'approvazione, con iniziative sia nazionali che sovranazionali, di leggi che hanno vietato il commercio di schiavi, ma non la schiavitù in sé.
La tratta dei neri, ossia il commercio di schiavi africani, iniziò subito dopo la scoperta dell’America, ma assunse dimensioni impressionanti nel XVII/XVIII secolo.
Fin dal Medioevo gli Arabi commerciavano in schiavi africani, che erano destinati all’esercito o agli harem dell’impero ottomano. Fra gli Europei, i primi mercanti di schiavi neri furono i Portoghesi, presto seguiti da tutti i paesi che avevano colonie in America. Gli schiavi erano impegnati soprattutto nel massacrante lavoro delle miniere e delle piantagioni (di tabacco, canna da zucchero, cacao, caffè, cotone).
In un primo momento i coloni provarono a servirsi delle popolazioni indigene dell’America, ma gli Indios erano pochi, indeboliti dalla fame e dalle malattie, e non resistevano alla fatica. Furono impiegati anche degli europei, soprattutto criminali condannati al lavoro forzato, ma anche adulti e bambini rapiti. Il loro numero, tuttavia, rimaneva sempre insufficiente. La manodopera nera invece non solo resisteva ai climi caldi, ma costava poco e sembrava inesauribile.
Gli schiavi hanno rappresentato, fin dall’antichità, una notevole fonte di guadagno per i mercanti che si dedicavano a questo commercio, esportando uomini dall’Africa verso l’Arabia, la Persia e l’India.
Nel XVIII secolo, a causa di un notevole aumento della domanda, i mercanti arabi cominciarono a spingersi maggiormente verso l’interno dell’Africa per trovare altri schiavi che venivano, poi, venduti al mercato di Zanzibar Town. Gli Arabi erano molto abili a sfruttare le rivalità esistenti tra le diverse tribù, facendo in modo che, nei vari conflitti locali, i vincitori vendessero i nemici catturati come schiavi.
Strettamente connesso al commercio degli schiavi era quello dell’avorio: per ottimizzare i costi di trasporto, i mercanti arabi caricavano sulla stessa nave anche delle zanne di elefante che gli schiavi erano costretti a trasportare nella loro marcia verso la costa. Le donne, in particolare, portavano spesso sulle spalle anche un bambino e, se non riuscivano a trasportare entrambi i carichi, dovevano assistere all’uccisione o all’abbandono dei loro figli, che, per i mercanti, rappresentavano solo un ostacolo. Allo stesso modo venivano uccisi gli schiavi troppo deboli per continuare a marciare. Dopo settimane, o addirittura mesi, di marcia forzata, stretti l’uno all’altro da collari chiusi intorno al collo, le carovane raggiungevano i porti di Kilwa e Bangamoyo, dove gli schiavi venivano imbarcati sui dhows per affrontare un viaggio che si svolgeva in condizioni disumane: ammassati sui ponti o nelle stive, erano costretti ad indossare un giogo di legno o catene di ferro alle caviglie, finché non giungevano a destinazione.
I pasti consistevano in una ciotola di riso ed una tazza di acqua stagnante e le epidemie non tardavano a diffondersi, anche se i mercanti avevano un modo piuttosto sbrigativo per circoscrivere il contagio: gettare in mare gli schiavi infetti.
Quando finalmente raggiungevano Zanzibar, gli schiavi erano esausti per la fame e per la forzata immobilità. Poiché i mercanti dovevano pagare la dogana su ogni singolo schiavo, quelli ritenuti incapaci di sopravvivere venivano gettati in mare prima di attraccare, ma erano comunque molti quelli che morivano negli uffici doganali o lungo la strada che conduceva al mercato.
I sopravvissuti venivano lavati e "lucidati" con olio per renderli più pregiati. Le donne venivano abbigliate e, spesso, adornate con bracciali e collane nonché truccate con henné e polvere di antimonio.
Solitamente si sistemavano nelle prime file gli schiavi migliori, lasciando per ultimi quelli più bassi o più deboli, ma tutti erano accuratamente esaminati dagli acquirenti per assicurarsi che fossero in grado di lavorare ed, infine, venduti al miglior offerente. In alcuni casi essi rimanevano sull’isola per lavorare nelle piantagioni ma molto più spesso, venivano imbarcati per raggiungere l'Oman o qualche altra località dell’Oceano Indiano.
Giunti a destinazione, per gli schiavi iniziava una nuova e, quasi sempre più umana, vita. Molti di loro ricevevano dei piccoli appezzamenti di terra da coltivare nelle ore libere dal lavoro, le madri non erano mai separate dai figli e coloro che erano particolarmente apprezzati dai loro padroni acquistavano dopo alcuni anni la libertà. In questi casi, trovavano spesso un impiego presso i loro ex padroni come giardinieri o contadini, oppure ripercorrevano a ritroso il loro viaggio come capi di carovane o di navi di schiavi.
Alla morte del Sultano Said, il sultanato dell'Oman si separò da Zanzibar che aveva raggiunto una certa prosperità grazie all’esportazione dei chiodi di garofano e soprattutto grazie al commercio degli schiavi, che fu decisamente ostacolato dagli inglesi.
Grazie alla mediazione di Atkins Hamerton e John Kirk, il governo inglese riuscì a conquistare la fiducia del Sultano Said e di suo figlio Bargash, raggiungendo l’obiettivo di limitare e infine di eliminare questo disumano commercio. In realtà fu solo 50 anni dopo la chiusura della tratta degli schiavi nel 1873, che la schiavitù scomparve definitivamente dalla Tanzania (all’epoca Tanganyika).
Il più noto mercante di schiavi dell’isola era chiamato Tippu-Tip o Tippu-Tib ritenuto, a dispetto della sua attività commerciale, un uomo di tutto rispetto, visto che Stanley lo definisce "l’uomo più notevole che abbia incontrato tra gli Arabi, i Waswahili e i meticci dell’Africa". Era vestito in abiti di bianco immacolato, la sua vita circondata da una ricca Dowle su cui pendeva uno splendido pugnale con filigrana d'argento. La testa era ornata da un fez, che gli dava l'aria di un sultano arabo o un ricco gentiluomo.
Nella cattedrale di Stone Town, costruita dove sorgeva il vecchio mercato degli schiavi, sono stati rispettati dei simbolismi molto significativi: l’altare sorge nel punto in cui c’era il palo dove gli schiavi venivano frustati ed una delle vetrate ricorda i marinai inglesi morti durante i pattugliamenti anti-schiavitù. Un’usanza piuttosto comune, stando al numero degli scheletri ritrovati in alcuni edifici, era quella di seppellire vivi degli schiavi quando si gettavano le fondamenta di una nuova costruzione.
Nel XVIII secolo la richiesta di schiavi aumentò vertiginosamente a causa del fabbisogno di manodopera nelle piantagioni di zucchero in Brasile e nelle Indie Occidentali, così come nelle piantagioni delle colonie francesi (Madagascar, Reunion, Mauritius), mentre in Medio Oriente venivano richieste concubine, eunuchi e servi.
Nonostante il bando della schiavitù nell’impero britannico fin dal 1830 e la successiva messa al bando nel 1845, anche a Zanzibar questo redditizio "commercio" continuò ancora per anni. Infatti era sufficiente che una nave su quattro riuscisse a superare il blocco anglo-francese per ottenere un profitto.
Tuttavia questo incise pesantemente sulle condizioni degli schiavi che venivano trasportati in maniera ancora più disumana. Basti pensare che all’epoca 5 uomini venivano letteralmente stipati nello spazio precedentemente riservato a due, mentre nelle piantagioni almeno il 30% degli schiavi moriva per denutrizione o malattie.
Verso la fine del regno del Sultano Said, almeno 50.000 schiavi in un anno erano venduti al mercato di Zanzibar, rendendola, insieme al commercio dei chiodi di garofano, la città più importante della costa orientale dell’Africa.
La crescente opposizione del governo britannico spinse il successore di Said, Sayyid, a chiudere il mercato di Zanzibar nel 1873. Questo provvedimento non riuscì a stroncare il commercio di schiavi, il cui divieto veniva aggirato ricorrendo a diverse astuzie, quali fingere di affittare dei portatori e trattenere le loro paghe.
Consapevoli della necessità di un’azione congiunta, le potenze occidentali abolirono la schiavitù durante la Conferenza di Berlino del 1855.
Stone Town ("città di pietra" in inglese), anche nota come Mji Mkongwe ("città vecchia" in swahili), è la parte vecchia della capitale di Zanzibar, in Tanzania; si trova sulla costa occidentale di Unguja, l'isola principale dell'arcipelago di Zanzibar. Un tempo capitale del sultanato di Zanzibar, poi centro amministrativo coloniale durante l'occupazione britannica, e oggi sede delle istituzioni di governo dello stato semi-autonomo di Zanzibar, Stone Town è una delle città di maggiore importanza storica dell'Africa orientale.
La sua architettura, in gran parte del XIX secolo, riflette la molteplicità di influenze che definiscono la cultura swahili in generale: vi si ritrovano infatti elementi moreschi, arabi, persiani, indiani ed europei.
Per la sua importanza storica e la sua architettura, la città è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
L'origine della multietnicità e multiculturalità caratteristica di Stone Town si può far risalire al periodo shirazi, verso l'inizio del secondo millennio, quando arabi e persiani iniziarono a colonizzare l'Africa orientale, mischiandosi con le popolazioni locali bantu e fondando città-stato costiere come Kilwa. Sebbene Stone Town sia sorta solo in epoca molto più tarda, la sua architettura e la sua cultura sono il riflesso della fusione di influenze arabe, persiane, asiatiche e bantu che caratterizza in generale la cultura swahili.
La nascita di Stone Town risale agli anni 1830, quando vennero costruite le prime case di pietra; all'epoca, l'arcipelago di Zanzibar apparteneva al sultanato di Oman. A partire da questo periodo la città iniziò a svilupparsi, soppiantando gradualmente un precedente villaggio di pescatori. Nel 1840, il sultano di Oman Said bin Sultan trasferì a Stone Town la propria capitale, che quindi ebbe il principale impulso allo sviluppo dalla presenza dei palazzi reali e delle strutture governative del sultanato. Nel 1861, in seguito a una lotta di successione all'interno della famiglia reale, Zanzibar si separò da Oman, diventando un sultanato indipendente. Negli ultimi decenni del XIX secolo il sultano di Zanzibar iniziò a perdere i propri possedimenti a vantaggio delle potenze coloniali europee (in particolare Germania e Regno Unito) e nel 1890, in seguito alla stipula del Trattato di Helgoland-Zanzibar, quest'ultima divenne un protettorato britannico. Nel 1896, un tentativo di rivolta all'autorità britannica da parte degli omaniti fu spento nel sangue nel corso di quella che viene ricordata come la guerra più breve della storia conclusasi con la resa di Zanzibar dopo appena 45 minuti di bombardamento navale contro Stone Town.
In epoca coloniale la città fu a lungo un importante centro commerciale nell'Africa orientale, sebbene le autorità coloniali britanniche privilegiassero da questo punto di vista i centri sulla costa continentale come Mombasa e Dar es Salaam. Il principale genere di esportazione da Zanzibar erano le spezie, in particolare chiodi di garofano. Zanzibar era un punto cruciale della via delle spezie che univa l'Europa e l'Africa all'Asia. Stone Town svolgeva anche un ruolo fondamentale nel commercio di schiavi tratti dal continente e inviati in Medio Oriente. Ancora oggi si possono visitare nella zona alcune delle prigioni in cui gli schiavi venivano reclusi, sia a Stone Town che nella vicina Prison Island.
Anche in epoca coloniale, Zanzibar mantenne la sua natura multietnica. Oltre ai coloni britannici, alle popolazioni native, e agli omaniti (che mantennero sotto l'amministrazione britannica un ruolo di gruppo privilegiato dal punto di vista economico e politico), vi si trovavano portoghesi e immigrati di diverse provenienze asiatiche, soprattutto persiani e indiani.
Nel 1964, Stone Town fu il principale teatro degli eventi della rivoluzione che portò alla destituzione del sultano e all'instaurazione del governo socialista dell'Afro-Shirazi Party (ASP), e che causò la fuga di numerosi profughi appartenenti ai gruppi etnici tradizionalmente più ricchi e vicini al sultano (soprattutto arabi e indiani). Quando Zanzibar e Tanganica si unirono nell'odierna Tanzania, Stone Town mantenne il ruolo di capitale e sede del governo per lo stato di Zanzibar.
Il massacro delle donne Manyuema o Manyema (Una-Ma-Nyema, mangiatori di carne), una potente e bellicosa tribù di cannibali di origine bantu in Nyangwe sulla riva destra del fiume Lualaba (il corso iniziale del fiume Congo) nella Repubblica democratica del Congo (territorio di Kasongo). Le terre dei Manyuema furono, per la maggior parte del 19° secolo, un Eldorado per i mercanti di schiavi arabi.
Il 15 luglio 1871 mentre si trovava a Nyangwe, Livingstone vide il massacro della popolazione africana locale da parte dei mercanti di schiavi arabi di Zanzibar. Circa 400 o 500 africani, in maggioranza donne, sono morti in un solo giorno - una scala di omicidio e di morte senza precedenti nell'esperienza di Livingstone.
Tribù della Manyuema, tutte dedite al cannibalismo, nelle loro caratteristiche più orribili. Portavano guerre contro i loro vicini con il solo scopo di uccidere e mangiare i cadaveri. Nelle loro pazze frenesie, impalavano i bambini ancora lattanti sulle loro lance acuminate e li strappavano a pezzi. Anche le donne avevano un ruolo di primo piano nelle terribili orge.
Supremazia omanita e inizio della tratta degli schiavi
Dal 1698 il Sultano omanita governava le isole di Zanzibar e Pemba dalla capitale del suo regno, Muscat, facendosi rappresentare da governatori.
Nel 1710, completata la costruzione di un forte sorto sulle rovine di una chiesa portoghese, una piccola guarnigione s’installò stabilmente sull’isola. L'Oman si reggeva economicamente sul commercio, in particolare sull’esportazione di datteri che richiedevano il reperimento di manodopera a basso costo.
Poiché le regole dell’Islam vietavano di rendere schiavi i musulmani, furono gli africani ad essere importati, facendo tappa a Zanzibar, per lavorare nelle piantagioni.
Ai primi del ‘700 nel sultanato c’erano 5.000 schiavi africani, con un incremento annuale di almeno 500 unità. Non tutti però finivano a lavorare nelle piantagioni: alcuni ingrossavano le fila della servitù mentre le donne diventavano concubine ed altri ancora venivano "esportati" di nuovo verso la Persia o l’India.
Nel 1737 il regno della dinastia Yaa’rubi s’interruppe a causa dell’occupazione persiana, terminata dopo soli 4 anni, nel 1741, quando Ahmed bin Said al Busaidi, un mercante omanita, riuscì a scacciare gli occupanti.
Nel 1744 egli venne nominato Sultano dell'Oman, dando inizio alla dinastia Busaidi. Uno dei suoi primi atti ufficiali fu la nomina di un nuovo Sultano che governasse Zanzibar e Pemba, dato che quello in carica all’epoca aveva acquisito un’eccessiva indipendenza.
La dinastia Busaidi estese il suo controllo a quasi tutte le città strategicamente più importanti della costa orientale dell’Africa, mentre Mombasa rimase sotto il controllo di una dinastia rivale, quella dei Mazrui che nel 1746 dichiararono l’indipendenza di Mombasa dall'Oman, riuscendo anche a conquistare Pemba. Nel 1753 tentarono di estendere la loro egemonia anche a Zanzibar ma furono respinti.
Zanzibar aumentava sempre più la sua importanza economica e strategica ed il commercio di schiavi divenne, verso la metà del '700, sempre più florido, per la notevole richiesta di persone da utilizzare nelle piantagioni di zucchero e chiodi di garofano nella odierna isola Mauritius e Reunion. La richiesta sempre crescente spinse i mercanti di schiavi ad inoltrarsi verso l’interno dell’Africa per reperire altre vittime.
Primi tentativi britannici di porre fine alla tratta degli schiavi
Il Sultano bin Ahmed salì al potere dell'Oman nel 1792 ed avendo bisogno di un forte alleato per contrastare i Mazrui ed i Persiani, si alleò con gli Inglesi, siglando, nel 1798, un trattato di commercio e navigazione. Gli Inglesi rappresentavano un alleato irrinunciabile per difendersi dall’espansionismo di Napoleone Bonaparte, ma il governo britannico fece pesare il suo ruolo per porre fine alla tratta degli schiavi, dichiarata illegale in Inghilterra fin dal 1772.
Nel 1822 il Sultano Said firmò un trattato antischiavitù con il capitano inglese Moresby, in virtù del quale il trasporto di schiavi veniva proibito a sud e ad est della cosiddetta Linea Moresby, che andava da Capo Delgado, limite meridionale dei possedimenti del Sultano in Africa, a Diu Head, sulla costa dell’India.
In questo modo, il commercio degli schiavi era vietato tra Zanzibar, Mauritius, Reunion e l’India, ma era ancora permesso tra Zanzibar e l'Oman. Al Sultano fu anche vietato di vendere schiavi a nazioni cristiane, stroncando così l’afflusso di manodopera nelle colonie francesi dell’Oceano Indiano.
Paradossalmente questo trattato portò ad un aumento del commercio di schiavi sull’isola di Zanzibar, mentre il Sultano, per compensare la perdita dei diritti doganali sugli schiavi venduti, incrementò notevolmente le piantagioni di chiodi di garofano.
Nel 1822 egli cercò anche di detronizzare il Sultano Mazrui di Mombasa, ottenendo soltanto il ricorso di quest’ultimo alla protezione inglese per difendersi da altri eventuali attacchi.
Il capitano Owen cercò di sfruttare questa rivalità a vantaggio dell’Inghilterra, stabilendo un protettorato inglese a Mombasa, a patto che il Sultano abolisse la tratta degli schiavi.
Formalmente il Sultano acconsentì, continuando, in realtà, il commercio come se nulla fosse accaduto, ottenendo soltanto di porre fine, nel 1826, al protettorato britannico, consentendo al Sultano Said di riconquistare Mombasa nell’anno seguente.
Gran Bretagna continua ad opporsi al commercio degli schiavi
Preoccupato che l’abolizione della schiavitù potesse indebolire il suo potere, il Sultano Said inviò, nel 1842, un suo messo dalla regina Vittoria con ricchissimi doni per "ammorbidire" la sovrana, la quale ricambiò i doni ma non allentò assolutamente la presa sullo spinoso argomento.
Nel 1845 Said fu costretto a firmare un trattato che permetteva il trasporto degli schiavi solo tra Lamu e Kilwa, i limiti estremi dei possedimenti del Sultano sulla costa. Questo significava che gli schiavi potevano ancora essere importati a Zanzibar, ma non potevano più essere trasportati nell'Oman.
Gli inglesi misero in atto un vero e proprio blocco navale, incendiarono tutte le imbarcazioni che riuscirono ad intercettare e trasferirono gli schiavi ad Aden od in alcune comunità per "schiavi liberati" come Mombasa.
In realtà, avendo a disposizione una flotta piuttosto ridotta per pattugliare un enorme specchio di mare, gli inglesi non riuscirono ad apportare seri danni ai mercanti di schiavi, che continuarono a realizzare enormi profitti. In seguito, prese dall’urgenza di estendere i loro possedimenti coloniali, le potenze occidentali trascurarono la lotta alla schiavitù, le cui ultime tracce furono sradicate solo nel 1922.
Alla fine del XIX secolo, tutta l'Africa era stata spartita in colonie, e praticamente tutti i regimi coloniali avevano imposto l'abolizione della schiavitù. Nel continente africano tuttavia il commercio continuava in paesi come l'Etiopia, che lo proibì solo nel 1932.
Un'altra pietra miliare fu la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, il cui articolo 4 vietava la schiavitù in tutte le sue forme.
Il primo paese arabo-musulmano ad abolire la tratta di schiavi fu la Tunisia nel 1846, ma ciò avvenne di fatto solo nel 1881, con l'occupazione francese. Yemen e Arabia Saudita l'abolirono nel 1962.
La Mauritania nel 1980 è stato l'ultimo paese ad abolire ufficialmente ogni forma di schiavitù. Il fenomeno sembra invece essere tornato prepotentemente in auge a partire dagli anni 2000, tanto da far nascere un movimento politico detto Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista, guidato dal politico e attivista Biram Dah Abeid, soprannominato "il Mandela della Mauritania".
Denis Diderot nel 1871 scriveva:
« Mai un uomo potrà essere la proprietà di un sovrano, un bambino la proprietà di un padre, una donna la proprietà di un marito, un domestico la proprietà di un padrone, un negro la proprietà di un colono. Dunque non possono esistere schiavi, neanche per diritto di conquista, ancora meno per acquisto e vendita. I Greci dunque sono stati degli animali feroci contro i quali i loro schiavi giustamente si sono ribellati. I Romani dunque sono stati bestie feroci [...] »
Ma nella stessa corrente di pensiero dell'Illuminismo David Hume avanzava giudizi sulla inferiorità dei Negri giustificandone indirettamente l'asservimento:
« Sospetto i Negri e in generale le altre specie umane di essere naturalmente inferiori alla razza bianca. Non vi sono mai state nazioni civilizzate di un altro colore che il colore bianco. Né individuo celebre per le sue azioni o per la sua capacità di riflessione... Non vi sono tra di loro né manifatture, né arti, né scienze. Senza fare menzione delle nostre colonie, vi sono dei Negri schiavi dispersi attraverso l’Europa, non è mai stato scoperto tra di loro il minimo segno di intelligenza.»
Queste considerazioni possono meravigliare chi consideri lo spirito libertario degli illuministi, ma in realtà esse sono giustificate storicamente dalla cultura del tempo basata su un pensiero eurocentrista che riteneva la civiltà occidentale come un modello di perfezione, sulla base del quale tutti coloro che se ne discostavano erano da considerare non civili. Gli illuministi, come movimento elitario borghese, ritenevano quindi che fossero da giudicare "barbari" i popoli che non avessero apportato il loro contributo razionale al progresso della civiltà umana. Idea questa che li portava ad esempio a condannare il Medioevo come un'epoca di totale inciviltà. Perciò si poteva sostenere l’immoralità e l’ingiustizia dello schiavismo auspicandone l'abolizione e, nel contempo, ritenere i neri una razza culturalmente inferiore.
Per l'Africa la tratta significò un'enorme catastrofe. I negrieri sceglievano di preferenza uomini e donne forti e sani, ancora in età da potersi riprodurre. A causa del loro forzato trasferimento, famiglie e villaggi furono distrutti, intere regioni si spopolarono e lo sviluppo dell'Africa fu interrotto, con conseguenze che pesano ancora oggi sull'economia del continente.
Gli europei invece trassero dal commercio e dalla colonizzazione del mondo grandi vantaggi economici e l'errata convinzione di essere superiori ad ogni altra razza, soprattutto a quella nera.